Dalla fine degli anni Sessanta fino all’agosto del 1990, su consiglio del suo psicologo junghiano, Federico Fellini annotava i suoi sogni su un quaderno – un vortice di allucinazioni erotiche, infantili, a tratti disperate – che sarebbero diventati il materiale grezzo più riconoscibile nei suoi film. Segnato da una vita notturna particolarmente attiva, sembrava che l’unico modo per non soccombere al proprio immaginario fosse quello di metterlo nero su bianco, trasformarlo in dei “segnacci, appunti affrettati e sgrammaticati” – dando inconsapevolmente luce a quella che sarebbe stata definita la sua autobiografia più sincera.
Oggi si potrebbe dire con certezza che tuttə i riminə siano familiari con il Libro dei Sogni di Federico Fellini; tuttə conoscono quel mondo ipertrofico, circolare, di corpi e luoghi che scivolano tra desiderio e malinconia. Un libro pericoloso perché troppo vero: ciò che sogniamo dice di noi più di quanto ci accada da svegli. È molto più complesso, d’altra parte, capire in quantə di noi si siano veramente interrogatə sulla parte più disperata di quei sogni; quella che racconta di una città natale amata e respinta allo stesso tempo, una città così difficile da abitare che il regista stesso, per Amarcord, fu costretto a ricostruirla altrove.
Cercare di orientarsi in una Rimini che mai, come ora, è stata più intrappolata in una condizione del “post-tutto” – post-turismo di massa, post-sessualità libertina, post-industria della vacanza – si potrebbe proprio riassumere nell’esperienza del sonnambulo che fa fatica a distinguere cosa appartenga alle allucinazioni del dormiveglia e cosa alla realtà. RIMINI È POST-TUTTO.
Essere di Rimini significa convivere con una presenza ingombrante, dalle fattezze simili a una vecchia diva di Hollywood che continua ostinatamente a specchiarsi, truccarsi e aggiustarsi il boa di piume nel tentativo disperato di ritrovare la luce del suo passato cinematografico. Una diva che vive di riflessi più che di realtà, di aneddoti ripetuti, di storie che tuttə conoscono a memoria ma che nessunə osa contestare. UNA DIVA CHE NON MOLLA IL PALCO.
Queste riflessioni traducono i pensieri di artistə, scrittricə, creativə, curatorə, operatorə culturali che si sentono da troppo tempo di doversi muovere in una dimensione laterale alla città di Rimini: chi tra noi firma questa lettera ha dato vita a progetti in città lontane – Londra, Stoccolma, New York, Oslo, Amsterdam, Tokyo, Seoul – perché a Rimini mancavano le condizioni minime per farlo. LA DIASPORA CULTURALE ESISTE. È QUI. È ORA.
Sembra che la cultura riminese, per essere riconosciuta, debba prima sparire dalla città, evaporare oltre il suo perimetro, per poi tornare come qualcosa di esotico, finalmente degno di nota. PER ESSERE VISTI, DOBBIAMO SPARIRE?
Fellini ricostruì Rimini altrove per raccontarla. Noi chiediamo di non essere costretti a fare lo stesso. NON VOGLIAMO EMIGRARE PER ESISTERE.
CIÒ CHE CHIEDIAMO. SUBITO. QUI.
SPAZI PER CONNETTERCI
Luoghi fisici, continui, non occasionali, dove incontrarci, discutere, produrre, sbagliare e ricominciare.
SPAZI PER FARE CULTURA
Mostre, progetti, laboratori, discorsi. Luoghi vivi, non cornici vuote.
RICONOSCIMENTO PER CHI PARTE E CHI RESTA
La diaspora culturale riminese non deve essere invisibile. Chi torna deve trovare ascolto.
ACCESSO ALLE ISTITUZIONI
Non come ornamento o quota giovane: come interlocutori competenti, con pratiche e strumenti reali.
ASCOLTO RECIPROCO
Dialogo vero. Non slogan. Non consulenze di facciata.